CONSIGLIO DI STATO 10 marzo 2014

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CONSIGLIO DI STATO 10 marzo 2014

 

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 6^ – 10 marzo 2014, n. 1076

N. 01076/2014REG.PROV.COLL.
N. 02714/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso r.g.a.n. 2714/2009, proposto da:
Ministero dell’economia e delle finanze, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – Provveditorato regionale alle opere pubbliche – Magistrato alle acque di Venezia e Agenzia del demanio, in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Enel Produzione s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Paolo Dell’Anno, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo, in Roma, via Umberto Saba, 54/C;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. Veneto, Venezia, sezione I, n. 219/2008, resa tra le parti e concernente le tabelle per canoni demaniali.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati, con tutti gli atti e i documenti di causa.

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 9 gennaio 2014, il Consigliere Bernhard Lageder e uditi, per le parti, l’avvocato dello Stato Marinella Di Cave e l’avvocato Paolo Dell’Anno.

Ritenuto e considerato, in fatto e diritto, quanto segue:

FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.a.r. per il Veneto accoglieva il ricorso n. 511 del 1996 (integrato da motivi aggiunti), proposto dalla E.n.el. Produzione s.p.a. (già E.n.el. s.p.a.) avverso i seguenti atti:

(i) il provvedimento di cui alla nota n. 6779/95 rep. 3/A del 29 novembre 1995 del Ministero delle finanze (Dipartimento del territorio – Compartimento del territorio Trentino-Alto Adige – Veneto – Friuli-Venezia Giulia – Sezione demaniale di Venezia), con il quale la società ricorrente era stata invitata a versare l’indennità complessiva di lire 3.770.600.000 per il periodo dal 22 giugno 1963 al 31 dicembre 1994, e, con decorrenza dal 1° gennaio 1995, il canone annuo di lire 3.132.000.000, in relazione all’autorizzazione provvisoria n. 4484 del 14 aprile 1993 (recante «Autorizzazione provvisoria allo scarico reflui») per l’esercizio dell’immissione nel Naviglio del Brenta dei tre scarichi nel Canale industriale sud e della presa di attingimento di acqua di raffreddamento posizionata in detto canale, funzionale all’esercizio della centrale termoelettrica di Fusina, di proprietà dell’impresa ricorrente, situata nella seconda zona industriale di Venezia;

(ii) l’atto presupposto di cui alla nota n. 2962/294-93 del 22 settembre 1995 dell’U.t.e. di Venezia con allegate tabelle, recante determinazione dell’ammontare dell’indennizzo e dei canoni nella misura sopra riportata;

(iii) (con i motivi aggiunti) l’atto di cui alla nota n. 2297/286-96 del 12 marzo 1996 dell’U.t.e. di Venezia con allegate tabelle, recante esplicazione dei criteri valutativi di determinazione delle indennità e dei canoni nel menzionato ammontare.

Con il ricorso, accanto all’azione impugnatoria, era stata proposta azione diretta all’«accertamento della non debenza, da parte dell’E.n.el. (proprietaria ed esercente della Centrale termoelettrica di Fusina), di un canone per l’attingimento delle acque dal Canale industriale sud» (così, testualmente, le conclusioni rassegnate nel ricorso introduttivo di primo grado).

L’adìto T.a.r., previa reiezione dell’eccezione di carenza di giurisdizione, sollevata dalle parti resistenti, ed affermata la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia, in quanto avente ad oggetto non già mere questioni di quantificazione (in applicazione di puntuali parametri) d’indennità, canoni o altri corrispettivi, inerenti al rapporto concessorio in questione, bensì il sindacato sul corretto esercizio del potere dell’amministrazione, in ordine alla qualificazione del rapporto concessorio ed all’eventuale qualificabilità delle acque lagunari come acqua pubblica al pari delle acque sorgenti, fluenti e lacuali, con i conseguenti riflessi su an e quantum del canone concessorio preteso per l’attingimento dell’acqua lagunare, a scopo di refrigerazione degli impianti della centrale termoelettrica in questione, accoglieva, segnatamente, il primo motivo di ricorso, di violazione ed erronea applicazione degli artt. 15, d.-l. 2 ottobre 1981 n. 546, convertito nella legge 1° dicembre 1981 n. 692; 4, lett. a), d.m. 20 luglio 1990, e 18, lett. d), legge 5 gennaio 1994 n. 36, rilevando che:

– gli atti concessori succedutisi nel tempo (sin dall’originaria decorrenza del 1° ottobre 1964) avrebbero sempre inglobato anche l’autorizzazione all’‘esercizio’ delle opere di presa d’acqua marina, mentre l’autorizzazione ad attingere l’acqua comunale sarebbe stata, nel tempo, sempre concessa senza che l’amministrazione si fosse mai posto il problema di un corrispettivo;

– avrebbe dovuto ritenersi contraddittorio e illogico il comportamento dell’amministrazione che, prima, aveva autorizzato (senza riserva alcuna e senza richiedere alcun canone) la realizzazione e l’esercizio della presa d’acqua e, poi (dopo moltissimi anni), era ritornata sui suoi passi per qualificare diversamente il rapporto e richiedere, con effetto retroattivo, la corresponsione del canone concessorio;

– avrebbe dovuto, per contro, ritenersi legittima l’originaria azione dell’amministrazione nel rilasciare, senza pretendere il canone concessorio, tale autorizzazione (non onerosa) alla presa d’acqua lagunare, sulla base del rilievo assorbente secondo cui l’acqua della laguna, quale acqua di mare, non rientrerebbe nel novero delle acque pubbliche, con conseguente illegittima pretesa del pagamento di un canone.

2. Avverso tale sentenza interponevano appello le amministrazioni soccombenti, deducendo:

a) l’erronea reiezione dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, rientrando la controversia o nell’ambito della giurisdizione civile specializzata dei Tribunali regionali delle acque o in quella amministrativa speciale del Tribunale superiore delle acque pubbliche;

b) l’erroneo accoglimento della tesi dell’originaria ricorrente, secondo cui l’acqua marina sarebbe da qualificarsi alla stregua di una res communis omnium, per cui non sarebbe dovuto canone alcuno per l’attingimento dell’acqua di raffreddamento, trattandosi non già di acqua prelevata dal mare aperto, bensì dalla Laguna di Venezia (facente parte del demanio marittimo), sicché la derivazione d’acqua, a norma dell’art. 28, cod. nav., sarebbe soggetta a concessione onerosa, in ossequio al principio generale secondo cui, poiché l’uso particolare dei beni demaniali precluderebbe ai terzi la facoltà di fruire del medesimo bene, tale uso non potrebbe che essere a titolo oneroso, nella specie, nella forma del canone di concessione per la presa di attingimento;

c) l’erroneo annullamento degli atti impugnati, anche nelle parti riguardanti il canone richiesto in relazione alle aree demaniali «occupate dalle acque di scarico», attesa l’assoluta carenza motivazione in ordine ad eventuali vizi comportanti l’esito annullatorio.

Le amministrazioni appellanti chiedevano dunque, previa sospensione della provvisoria esecutorietà dell’appellata sentenza ed in sua riforma, la reiezione dell’avversario ricorso di primo grado.

3. Costituendosi in giudizio, l’appellata Enel Produzione s.p.a. contestava la fondatezza, in rito e nel merito, dell’avversario appello, chiedendone la reiezione.

4. All’udienza pubblica del 9 gennaio 2014 la causa veniva trattenuta in decisione.

5. L’appello è fondato parzialmente, entro i limiti di seguito evidenziati.

5.1. Destituito di fondamento è il primo motivo d’appello, di cui sopra sub § 2.a), con cui viene censurato l’erroneo rigetto dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Sebbene la sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche n. 79 del 24 novembre 1997 – intervenuta inter partes in relazione alle stesse, identiche domande proposte nell’ambito del presente giudizio e dichiarativa dell’inammissibilità del relativo ricorso per difetto di giurisdizione dello stesso Tribunale superiore delle acque pubbliche – non fosse vincolante per il giudice ad quem, sia perché l’unico giudice legittimato a risolvere le questioni di giurisdizione con efficacia vincolante per i giudici di tutte giurisdizioni nell’ordinamento italiano è la Corte di cassazione (arg. ex artt. 111, comma 3, Cost., 65 ordinamento giudiziario, e 382, comma 1, cod. proc. civ.), sia perché dall’art. 310, comma 2, cod. proc. civ., si deduce che le decisioni di rito dei giudici di merito possono avere solo efficacia di preclusione all’interno del processo in cui sono emanate, ma non anche efficacia al di fuori del processo stesso, ciò non di meno questo collegio condivide, nella sostanza, il rilievo centrale, sul quale si fonda la citata sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche.

Infatti, come correttamente evidenziato in tale sentenza, la Laguna di Venezia, con il relativo bacino di acqua salsa, determinato a norma della legge 7 gennaio 1937 n. 191, di conversione del r.d.-l. 18 giugno 1936 n. 1853, della successiva legge 5 marzo 1963 n. 366, e dell’ivi prevista ricognizione, appartiene al demanio marittimo ex artt. 822, cod. civ., e 28, cod. nav., e non già al demanio idrico delle acque pubbliche, di cui agli artt. 822, cod. civ., art. 1, r.d.. n. 1775/1933, e rispettivamente, art. 1, legge 5 gennaio 1994 n. 36, e art. 144, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, con conseguente insussistenza della giurisdizione speciale del Tribunale superiore delle acque pubbliche, esulandosi dalle ipotesi delineate dall’art. 143, r.d. n. 1775/1933.

Sotto altro profilo, deve escludersi la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere della presente controversia, versandosi in fattispecie di contestazione dell’esercizio di poteri valutativo-discrezionali nella determinazione del canone, sia in punto di an debeatur sia in punto di individuazione dei criteri di determinazione del quantum debeatur, e non già in fattispecie di contestazione del suo mero calcolo aritmetico sulla base di criteri già predeterminati, talché la controversia coinvolge la verifica dell’azione autoritativa dell’amministrazione sul rapporto concessorio (qualificazione del rapporto e del relativo oggetto; an del canone; individuazione dei criteri generali di determinazione del canone), con la duplice conseguenza della non riconducibilità della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario in materia di controversie «concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi» delle concessioni, e della sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. b), cod. proc. amm. (già art. 5, legge n. 1034/1971 e ss. mm. ii.): v. in tal senso, in fattispecie analoga, Cons. St., sez. VI, sent. 18 aprile 2011 n. 2375, e l’ivi richiamata giurisprudenza della Corte regolatrice e di questo Consiglio di Stato.

5.2. Merita, invece, accoglimento il motivo d’appello sub § 2.c), involgente, sotto un angolo visuale di natura processuale, un profilo di censura di ultrapetizione (da ritenersi immanente nelle deduzioni a p. 12, secondo e ultimo capoverso, ed a p. 13, primo capoverso, del ricorso in appello).

Infatti, l’odierna appellata, in primo grado, aveva chiesto l’accertamento della «non debenza, da parte dell’E.n.el. – proprietaria ed esercente della Centrale termoelettrica di Fusina – di un canone per l’attingimento delle acque dal Canale industriale Sud» (così, testualmente, le conclusioni rassegnate a p. 17 del ricorso di primo grado; v. anche la parte motiva di detto ricorso, incentrata sulla contestazione della quantificazione del canone relativo alla presa di attingimento, nonché i motivi aggiunti, da ritenersi sostanzialmente circoscritti a tale contestazione), in tal modo limitando il petitum sostanziale alla contestazione del canone per la derivazione delle acque dal Canale industriale sud (facente parte della Laguna di Venezia), utilizzate come acque di refrigerazione della centrale termoelettrica di Fusina, mentre esulava dal petitum sostanziale ogni questione inerente al canone per gli scarichi.

Peraltro, la limitazione del petitum alle indennità e ai canoni richiesti dall’amministrazione per la presa di attingimento trova la sua spiegazione nella circostanza che, sotto un profilo economico, il canone stabilito (negli impugnati provvedimenti) per gli scarichi ammonta agli importi di lire 6.600.000 per il periodo 1963-1989 e di lire 2.800.000 per il periodo 1990-1993, mentre l’importo di gran lunga più consistente dell’indennità totale di lire 3.770.600.000 è imputabile al canone per la derivazione d’acqua, così come, sul canone annuo determinato per il periodo 1995-1997 in lire 3.132.000.000, solo un importo di lire 2.800.000 riguarda il canone per gli scarichi, mentre quello residuo, di gran lunga maggiore, si riferisce al canone per la derivazione d’acqua.

L’impugnata sentenza deve, dunque, essere riformata nella parte in cui ha annullato gli impugnati atti nella loro interezza, e non già limitatamente alle parti aventi ad oggetto la determinazione delle indennità e dei canoni concernenti la presa di attingimento dell’acqua di refrigerazione (su cui v. infra).

5.3. Parzialmente fondato è, altresì, il motivo di appello sub § 2.b).

Non appare condivisibile la tesi, accolta nell’appellata sentenza, secondo cui per la presa di attingimento delle acque lagunari dal Canale industriale sud, impiegate per la refrigerazione delle turbine, non sia dovuto alcun canone, fondata sul rilievo che si tratterebbe di acqua di mare e, dunque, di una res communis omnium esistente, in natura, in quantità inesauribile, come tale non assoggettabile agli oneri concessori.

Occorre, al riguardo, precisare che non si controverte attorno al canone dovuto per l’occupazione delle aree demaniali marittime con le opere di presa e di scarico (da ritenersi comprese nel canone sin dall’originaria concessione), bensì attorno all’an e al quantum (rectius: ai relativi criteri di quantificazione) del canone preteso per l’acqua lagunare prelevata tramite le opere di derivazione posizionate in fregio al Canale industriale sud di Porto Marghera, utilizzata per la condensazione del vapore di scarico delle turbine ed il raffreddamento dei macchinari, integralmente restituita in uscita dai condensatori e scaricata nel tratto terminale del Naviglio del Brenta.

Della presa di attingimento si discorre in vari atti innestati sul rapporto concessorio, specie nelle autorizzazioni agli scarichi rilasciate in seguito all’emanazione della legge n. 319/1976, disciplinante per la prima volta in modo organico gli scarichi nell’ambiente idrico, comprese le acque marine (così, nell’autorizzazione provvisoria all’esercizio degli scarichi n. 4484 del 14 aprile 1993 è menzionata testualmente «n. 1 presa di attingimento di acqua di laguna in Canale industriale sud»).

In particolare, nel provvedimento di cui alla nota del Ministero delle finanze (Dipartimento di Venezia) del 10 marzo 1995 (peraltro, non specificamente impugnato), il canone relativo all’autorizzazione n. 4484 del 14 aprile 1993, dovuto per l’esercizio degli scarichi e della presa di attingimento in questione, risulta determinato, in via provvisoria e salvo conguaglio, nell’importo di lire 2.000.000 per il periodo dal 22 giungo 1963 al 31 dicembre 1994, e nell’importo annuo di lire 500.000 con decorrenza dal 1° gennaio 1995, con reiterazione della richiesta all’U.t.e. per la determinazione definitiva del canone, ed il relativo pagamento risulta essere stato eseguito dall’E.n.el. il 14 aprile 1995, senza obiezione alcuna.

5.3.1. Orbene, alla luce dell’evidenziato svolgimento del rapporto concessorio, contrariamente a quanto adombrato nell’appellata sentenza, deve, in primo luogo, escludersi che l’«esercizio» di presa d’acqua ed il relativo canone fossero inglobati nell’originaria concessione risalente al 1965, a prescindere dal rilievo che tale considerazione si pone in contraddizione con l’affermata (nell’appellata sentenza) natura «non onerosa» della facoltà di presa d’acqua lagunare (sul presupposto che l’acqua della laguna, quale acqua di mare, non rientrerebbe nel novero delle acque pubbliche).

In secondo luogo, per quanto esposto sopra sub § 5.1., la presa d’acqua in esame non è collocata nell’ambito (indefinito) del mare, bensì all’interno della Laguna di Venezia, la quale costituisce un bacino di acqua salsa ben delimitato [v. art. 1, legge 5 marzo 1963 n. 366 (Nuove norme relative alle Lagune di Venezia e di Marano-Grado)], facente parte del demanio marittimo.

Ne deriva che l’uso particolare da parte di soggetti privati ed imprese non può che fondarsi su uno specifico titolo concessorio o autorizzativo, tant’è che l’art. 25, legge n. 366/1963, prevede che «tutte le opere, arginature, chiaviche, fatte in fregio o all’interno del perimetro lagunare devono essere autorizzate dal Magistrato alle acque, ivi comprese la regolazione e le derivazioni di acqua marina», dovendosi tale ultima locuzione («derivazioni di acqua marina») ritenere comprensiva anche di un vero e proprio attingimento idrico, quale quello per cui è causa.

L’assunto dell’odierna appellata, secondo cui l’attingimento di acque marine costituirebbe un’ipotesi di uso interamente libero, non può condividersi per le seguenti, ulteriori, ragioni:

– il mare è soggetto alla sovranità dello Stato, il quale deve garantire l’accesso della collettività al godimento dei servizi indivisibili che tale bene è in grado di fornire, tant’è che l’art. 36, cod. nav., estende al mare territoriale la disciplina sulle concessioni dei beni del demanio marittimo, relativamente agli usi (divisibili) che possano limitarne la fruizione collettiva;

– anche il mare – compresa l’acqua marina, tanto più nell’ambito di un’area definita, quale la Laguna di Venezia – deve ritenersi sottoposto a un regime di governance sugli usi affidato alle amministrazioni deputate alla polizia del demanio marittimo [che, quanto alla Laguna di Venezia, si individua sia nel Magistrato alle acque (v. artt. 3 e 29, legge n. 366/1963, con particolare riguardo alla competenza in ordine alla «concessione dei beni demaniali marittimi compresi nell’interno della (………) con terminazione lagunare in tutta la laguna, escluse le zone portuali di competenza dell’autorità marittima»), sia nell’Autorità marittima (con riguardo alle zone portuali), sia, per alcuni aspetti, nella regione], e tra gli oggetti di tale attività di polizia deve ricomprendersi anche l’attingimento di acque marine per usi turistici, sanitari o (per quanto qui interessa) industriali.

Le considerazioni che precedono si pongono, peraltro, in linea con il recente orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione in tema di beni pubblici (formatosi con riguardo alle c.d. valli salse da pesca della Laguna di Venezia, sebbene nella fattispecie ivi decisa la questione si ponesse sub specie di contrapposizione tra proprietà privata e demanio pubblico, mentre nel caso in esame viene in rilievo il problema del tipo di natura pubblica del bene ‘acqua lagunare’ e della relativa disciplina applicabile), condivisa da questo collegio, secondo cui:

– il connotato della ‘demanialità’ deve interpretarsi quale espressione di una duplice appartenenza, alla collettività ed al suo ente esponenziale, dovendosi intendere la seconda (titolarità del bene in senso stretto) come ‘appartenenza di servizio’, che è necessaria, nel senso che detto ente è tenuto ad assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti caratteristiche del bene e la loro fruizione pubblica e/o collettiva;

– al fine di riconoscere se in concreto il particolare bene, di cui si discute, faccia parte della realtà materiale che la norma, denominandola, inserisce nel demanio, si deve tener conto, in modo specifico, del duplice aspetto, finalistico e funzionale, che connota la categoria dei beni in questione, con l’ulteriore conseguenza che la titolarità dello Stato (inteso come Stato-collettività, ossia come ente esponenziale degli interessi di tutti) comporta gli oneri di una gestione che renda effettive le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene;

– infatti, dal sistema costituzionale, in particolare dagli artt. 2, 9 e 42, Cost., è enucleabile il principio per cui, ove un bene, indipendentemente dalla titolarità, risulti, per le sue intrinseche connotazioni, segnatamente per quelle di tipo ambientale e/o paesaggistico, destinato al perseguimento dei fini propri dello Stato sociale, lo stesso è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva della proprietà codicistica, come bene ‘comune’ (v. Cass. civ., sez. un., sent. 14 febbraio 2011 n. 3655).

Né al riconoscimento dell’onerosità del titolo abilitativo e/o concessorio della presa d’acqua lagunare si oppone la circostanza che nella concessione originaria non sarebbe stato specificato un canone per la presa e per gli scarichi (pur essendovi autorizzate le relative opere), in quanto il comportamento dell’amministrazione, di mancata richiesta di un canone specifico per la presa d’acqua, non può qualificarsi alla stregua di comportamento concludente, ostativo alla richiesta al riguardo formulata con gli atti impugnati, attesa l’indisponibilità dei beni demaniali e l’inconfigurabilità di una loro concessione in godimento a terzi senza titolo oneroso, in assenza di specifica ed eccezionale previsione legislativa, nella specie insussistente, e stante comunque la richiesta di un canone provvisorio in relazione all’autorizzazione n. 4484 del 14 aprile 1993, (comprensiva sia degli scarichi sia della presa d’acqua), di cui alla nota del Ministero delle finanze, Dipartimento di Venezia, del 10 marzo 1995, non specificamente impugnata.

Per le esposte ragioni, deve affermarsi la sussistenza dell’onerosità del titolo concessorio di derivazione dell’acqua lagunare, per fini di raffreddamento degli impianti della centrale termoelettrica dell’E.n.el., sicché s’impone la riforma dell’appellata sentenza anche nella parte in cui aveva accolto il ricorso di primo grado, sul rilievo dell’insussistenza dell’obbligo del pagamento di un canone per la derivazione dell’acqua lagunare, a fini di raffreddamento.

5.3.2. Quanto ai criteri di determinazione del canone concessorio per l’attingimento dell’acqua lagunare, si premette che, negli impugnati provvedimenti, sono state applicate le tabelle riferite alle acque pubbliche, con la precisazione che l’art. 35 del r.d. n. 1775/1933, enunciando il principio generale dell’onerosità delle utenze d’acqua pubblica, prevede, per le tipologie d’uso diverse da quelle per le derivazioni ad uso idroelettrico, quale parametro di quantificazione del canone, il c.d. modulo d’acqua (pari a cento litri al minuto secondo), pervenendo alla determinazione del relativo ammontare negli importi specificati sopra sub § 5.2., in dichiarata applicazione degli artt. 1, comma 1, lett. a), d.m. 20 luglio 1990, e 18, lett. d), l. 5 gennaio 1994 n. 36.

Orbene, l’applicazione di detti criteri deve ritenersi affetta dai vizi di violazione di legge e di eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà e difetto di motivazione, dedotti dalla ricorrente di primo grado ed odierna appellata e devoluti in appello, in quanto:

– l’art. 1, comma 1, lett. a), d.m. 20 luglio 1990, nonché la norma di cui all’art. 18, lett. d), legge 5 gennaio 1994 n. 36, disciplinano la quantificazione dei canoni relative alle «utenze di acqua pubblica» del demanio idrico, ossia con riguardo ad un bene ontologicamente diverso dalle acque del demanio marittimo, con conseguente inapplicabilità diretta alla derivazione d’acqua di cui è controversia;

– quantunque il mare sia soggetto ad alcune forme fondamentali di uso, comuni a tutte le acque (come la navigazione e la pesca), esso differisce dalle acque interne, correnti e dolci, per la sua naturale, tendenziale inidoneità alle tre forme principali di uso peculiare di tali acque: l’uso potabile-igienico per gli uomini e gli animali, l’uso per l’irrigazione agricola, nonché l’uso di correnti e salti d’acqua come forza motrice;

– appare manifesta la diversa incidenza (sotto profili ambientali, economici, ecc.) sull’uso del bene pubblico, propria di una derivazione di acque pubbliche del demanio idrico, rispetto ad una derivazione di acque lagunari marine;

– la trasposizione diretta dei criteri di determinazione dei canoni vigenti per l’uso delle acque pubbliche del demanio idrico al canone concessorio – dovuto per la presa d’acqua lagunare – porta all’evidenza ad una quantificazione sproporzionata in eccesso, come, peraltro, dimostrato dalla circostanza che gli impugnati provvedimenti si pongono in contraddizione con la determinazione, assunta dall’amministrazione appena otto mesi prima, di cui alla nota del 10 marzo 1995, con la quale era stato richiesto il pagamento, ancorché provvisoriamente e salvo conguaglio, di un’indennità pari a sole lire 2.000.000 e di un canone annuo di appena lire 500.000, che mai avrebbero potuto giustificare e far presagire la misura della nuova e definitiva richiesta, eccedente, nel suo complesso, l’importo di lire sei miliardi.

Il ricorso di primo grado merita, dunque, accoglimento entro gli evidenziati limiti, sicché, in parziale accoglimento dell’appello e in parziale riforma dell’appellata sentenza, gli impugnati provvedimenti devono essere annullati nella parte in cui assegnano alla presa d’acqua in questione i criteri di quantificazione dei canoni applicabili alle utenze delle acque pubbliche del demanio idrico, con salvezza di ogni ulteriore determinazione dell’amministrazione competente, la quale, in esplicazione dei poteri ex art. 15, comma 2, d.-l. 2 ottobre 1981 n. 546, convertito nella legge 1° dicembre 1981 n. 692, ed in esito ad approfondita istruttoria, sarà tenuta a rideterminare motivatamente i criteri di quantificazione del canone per cui è controversia, tenendo conto delle peculiarità del bene oggetto di concessione e delle incidenze sull’uso pubblico e collettivo dell’acqua marina lagunare, nonché osservando il principio secondo cui la misura del canone costituisce una sintesi – e un punto di equilibrio in termini pecuniari – fra beneficio arrecato al titolare della concessione e compressione delle prerogative di uso generale, incise dall’uso economico del bene pubblico e/o ‘comune’ da parte dello stesso concessionario.

In tale contesto giova, da ultimo, precisare che – contrariamente a quanto sostenuto dall’odierna appellata – ai fini della determinazione del canone concessorio deve escludersi che possa trovare applicazione la previsione di cui al secondo comma dell’articolo 37 del regolamento per la navigazione marittima (articolo, rubricato ‘concessioni per fini di pubblico interesse’), secondo cui la favorevole misura del canone di mero riconoscimento di cui all’art. 39, secondo comma, cod. nav., può essere accordata nel caso di «concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza (…) nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun utile o provento».

Infatti, l’attività di prelievo dell’acqua marina per la refrigerazione degli impianti della centrale termoelettrica è, all’evidenza, collegata all’attività di produzione di energia elettrica tramite un nesso di strumentalità necessaria, con la conseguenza che la seconda non sarebbe in concreto possibile in assenza della prima, sicché risulta carente il requisito che legittimerebbe l’individuazione di un canone di mero riconoscimento (ossia, la mancata ritrazione di alcun utile o provento dal bene in concessione), atteso che la richiamata disposizione normativa, da intendersi in senso – per così dire – ‘funzionale’, per il suo carattere di specialità in raffronto ai princìpi generali, deve essere interpretata in senso restrittivo.

Ne deriva che il canone di mero riconoscimento non può essere applicato nei casi (che qui ricorrono) in cui la ritrazione di utili o proventi dell’attività derivi in modo indiretto e mediato (ma pur sempre con un nesso di strumentalità necessaria) dall’impiego del bene demaniale (v. in tal senso, in fattispecie analoga, Cons. St., sez. VI, sent. 12 marzo 2012 n. 1399).

6. Considerate le alterne vicende connotanti la presente controversia, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare gli oneri del doppio grado di giudizio interamente compensati fra tutte le parti costituitevi.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione VI) accoglie in parte l’appello r.g.n. 2714/2009, nei sensi di cui in motivazione, e, in parziale riforma dell’appellata sentenza:

– respinge la domanda di accertamento negativo proposta in prima istanza;

– annulla i provvedimenti impugnati in primo grado, entro i limiti precisati nella parte motiva sub § 5.3.2., con salvezza di ogni ulteriore determinazione dell’amministrazione competente;

– compensa tutti gli oneri processuali del doppio grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014, con l’intervento dei giudici:

Aldo Scola, Presidente FF
Vito Carella, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere, Estensore
        
        
L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE
 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/03/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

By |2014-03-12T16:46:06+00:00Marzo 12th, 2014|Commenti disabilitati su CONSIGLIO DI STATO 10 marzo 2014

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