REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SESTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ANTONIO AGRO’ – Presidente
Dott. LUIGI LANZA – Consigliere
Dott. PIERLUIGI DI STEFANO – Consigliere
Dott. EMANUELE DI SALVO – Consigliere
Dott. GAETANO DE AMICIS – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
– sul ricorso proposto da:
RIVA FI.RE SPA
RIVA FORNI ELETTRICI SPA
– avverso l’ordinanza n. 94/2013 TRIB. LIBERTA’ di TARANTO, del 15/06/2013
– sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;
– sentite le conclusioni del PG Dott. PAOLO CANEVELLI, che ha concluso per l’annullamento con rinvio.
Uditi difensori; Avv. Carlo Enrico Paliero e Avv.Franco Coppi, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con provvedimento emesso il 15 giugno 2013, e depositato il 2 luglio 2013, il Tribunale del riesame di Taranto ha rigettato le istanze proposte nell’interesse di RIVA F.I.R.E. s.p.a. e RIVA FORNI ELETTRICI s.p.a., confermando il decreto di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente emesso dal G.i.p. presso il Tribunale di Taranto in data 22 maggio 2013, sino alla concorrenza della complessiva somma di euro 8.100.000.000,00, con riguardo a beni (ossia, denaro, saldi attivi di conti correnti bancari e/o postali, depositi a risparmio, dossier titoli ed eventuali cassette di sicurezza, partecipazioni in altre imprese, beni immobili e mobili registrati, impianti, macchinari, ecc.), nella disponibilità, anche mediante interposizione fittizia, ovvero interposizione reale fiduciaria, della società RIVA F.I.R.E. s.p.a., ovvero dell’ente o degli enti eventualmente nati dalla sua trasformazione o fusione – anche per incorporazione – o scissione parziale (dunque, beni nella disponibilità sia dell’ente scisso, sia dell’ente, o degli enti, beneficiari della scissione).
1.1. In via solo residuale, ed in caso di incapienza dei beni sopra indicati, il provvedimento di sequestro ha esteso il suo oggetto sui beni immobili nella disponibilità anche mediante interposizione fittizia, ovvero interposizione reale fiduciaria – della società ILVA s.p.a., sempre che non si tratti di beni strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento siderurgico tarantino.
1.2. Con successivo decreto del 24 maggio 2013, inoltre, il G.i.p. di Taranto ha integrato il precedente provvedimento del 22 maggio 2013, specificando che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente nei confronti della RIVA F.I.R.E. s.p.a. poteva essere eseguito anche su “rapporti e/o disponibilità finanziarie di qualunque tipo e quale che sia la loro denominazione”.
1.3. Il Tribunale del riesame ha ritenuto pienamente condivisibili le argomentazioni addotte dal G.i.p. riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati presupposto previsti dall’art. 24-ter, comma 2, del D.Lgs. n. 231/01 (art. 416 c.p.) e dall’art. 25-undecies, comma 2, lett. a), b), c), d), e) ed h) del medesimo D. Lgs. (ossia, i reati in materia ambientale previsti dal D. Lgs. n. 152/06), sotto il profilo delle ulteriori condizioni richieste per l’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente in dipendenza di tali reati, ai sensi degli artt. 5 ss. del D. Lgs. n. 231/01, con riferimento alla ILVA s.p.a. ed alla società controllante RIVA F.I.R.E. s.p.a..
1.4. L’oggetto del provvedimento di sequestro – ossia, i beni nella disponibilità delle società sopra indicate, fino alla concorrenza della complessiva somma di denaro su specificata – è stato stimato pari al presunto profitto dei reati presupposto di cui al capo sub I) della rubrica, nell’ambito di un procedimento penale già avviato nei confronti di Riva Emilio – già presidente del c.d.a. di ILVA s.p.a. ed attualmente presidente del c.d.a. di RIVA FIRE s.p.a. – di Riva Nicola – già presidente del c.d.a. di ILVA s.p.a. ed attualmente procuratore speciale di RIVA FIRE s.p.a. – di Riva Arturo Fabio – già vice-presidente, consigliere ed amministratore delegato del c.d.a. di ILVA s.p.a. ed attualmente vicepresidente di RIVA FIRE s.p.a. – di Luigi Capogrosso – direttore e gestore dello stabilimento ILVA sino al 3 luglio 2012 e dipendente di ILVA s.p.a. sino al 28 settembre 2012 – nonchè di altri dieci dirigenti dello stabilimento ILVA di Taranto, chiamati a rispondere di più delitti contro la pubblica incolumità – segnatamente, dei reati di cui agli artt. 434, 437 e 439 c.p. – nonché di reati contro la pubblica amministrazione e la pubblica fede, e di reati in materia di tutela ambientale, di prevenzione degli incidenti rilevanti e di igiene e sicurezza del lavoro.
In particolare, secondo la contestazione racchiusa nel capo sub I), attraverso le condotte meglio specificate nei capi d’imputazione sub A), B), C), D) ed E), e nell’espletamento degli adempimenti previsti dalle norme vigenti nelle materie su indicate, i legali rappresentanti, gestori e datori di lavoro, unitamente ai dirigenti, capi area e responsabili dello stabilimento ILVA s.p.a. di Taranto, hanno cagionato danni ambientali agendo nell’interesse ed a vantaggio delle predette società, omettendo di provvedere all’attuazione delle necessarie misure di sicurezza, prevenzione e protezione dell’ambiente, quali interventi prudenzialmente quantificati nell’importo di euro 8.100.000.000,00, ritenuto necessario per effettuare tutte le opere di risanamento ambientale dello stabilimento siderurgico.
2. Avverso la predetta ordinanza del Tribunale del riesame di Taranto hanno proposto ricorso per cassazione, con separati atti, i difensori di fiducia di RIVA F.I.R.E. s.p.a. e di RIVA FORNI Elettrici s.p.a., società rispettivamente costituitesi nell’ambito del procedimento penale, ai sensi dell’art. 39 del D. Lgs. n. 231/01, nelle persone di Angelo Massimo Riva, quale consigliere delegato e legale rappresentante, e di Cesare Federico Riva, quale presidente e legale rappresentante.
3. Per quel che attiene alla posizione di RIVA F.I.R.E. s.p.a. i difensori hanno dedotto cinque motivi di doglianza, il cui contenuto viene di seguito illustrato.
3.1. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 2, 5, 19 e 24-ter del D. Lgs. n. 231/01, con riferimento all’individuazione, tra i reati produttivi di profitto-risparmio confiscabile in capo all’ente, delle fattispecie dedotte nei capi d’imputazione sub B), C) e D).
I delitti di cui agli artt. 434, commi 1 e 2, 437, commi 1 e 2, 439 c.p., rispettivamente contestati nei capi sub B), C) e D) – tutti richiamati all’interno del capo I) dell’imputazione sono estranei al catalogo dei reati – presupposto dell’illecito amministrativo dell’ente e non possono, come tali, fondare imputazione nei confronti della società ex artt. 2-5 del D. Lgs. n. 231/01, né, tanto meno, contribuire alla determinazione e quantificazione del profitto del reato-presupposto ex art. 19 del su citato D. Lgs..
Né è possibile attribuire alcun rilievo a tali fattispecie delittuose, ai fini della causazione e quantificazione del profitto confiscabile, configurandole quale scopo della fattispecie associativa contestata nel capo sub A): in violazione della tassatività del sistema sanzionatorio contemplato nel su citato D. Lgs., l’indefettibile correlazione causale tra reato-presupposto ed evento economico (ossia, il risparmio profitto in ipotesi confiscabile) viene omessa e sostituita con un diverso percorso logico-giuridico.
L’ordinanza impugnata, in particolare, omette di correlare, sul piano causale, l’individuazione di un profitto oggettivo alle condotte associative e sostituisce nominalmente tale necessaria correlazione attraverso un riferimento ai delitti-scopo non compresi nel catalogo di cui agli artt. 24-25 del su citato D. Lgs., omettendo tuttavia, anche rispetto a tali delitti-scopo, di determinare sul piano causale l’an ed il quantum del risparmio-profitto, ed in realtà individuando la genesi del risparmio non tanto nei delitti-scopo sub B), C) e D) – tipicamente inidonei, in ogni caso, alla produzione di qualsivoglia risparmio-profitto – quanto invece nelle omissioni in materia ambientale indicate nel diverso capo sub E).
Si tratta, infatti, di figure delittuose di evento, e l’evento materiale – inquinamento dell’aria-ambiente, ovvero del sottosuolo – contemplato nella struttura di ciascuno dei predetti reati (artt. 434, 437 e 439 c.p.) non può mai arrecare un risparmio d’impresa; né, peraltro, i relativi eventi di pericolo o di danno dell’incolumità pubblica sono stati configurati alla stregua di antecedenti causali di alcuna quota-parte dell’entità economica attinta dall’impugnato provvedimento.
3.2. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 2, 5, 19 e 25-undecies, comma 2, del D. Lgs. n. 231/01, nonché agli art. 29-bis ss. del D. Lgs. n. 152/2006 ed all’art. 1 del D.L. n. 207/2012, convertito nella L. n. 231/2012, avuto riguardo all’omessa correlazione causale del profitto agli allegati reati-presupposto in materia ambientale (capo sub E) dell’imputazione), sostituita invece con la correlazione non causale del valore sequestrato al costo presunto di investimenti futuri.
Il provvedimento impugnato, ed ancor prima il capo d’imputazione e lo stesso decreto di sequestro, non istituiscono un nesso causale effettivo tra l’importo complessivo della cautela reale e le singole ipotesi di reato ambientale, ma sostituiscono il presunto profitto con il danno, ed in particolare con il riferimento ad un programma di interventi futuri stilato dai custodi tecnici dell’area a caldo dello stabilimento tarantino, tuttora sottoposta a sequestro: i costi stimati per la ultimazione del programma, infatti, sarebbero il quantum degli illeciti risparmi pregressi, così eludendo la nozione tassativa di profitto del reato di cui all’art. 19 del su citato D. Lgs. n. 231/01.
Il riferimento alla programmazione di interventi futuri non consente di distinguere tra i costi storici delle singole tecnologie omesse all’epoca in cui l’obbligo di applicazione era eventualmente assistito da sanzione penale ed ogni ulteriore e diversa implementazione delle prestazioni ambientali – peraltro programmata in applicazione di norme tecniche di nuovissima generazione – né si esaurisce nel contenuto e nelle scadenze temporali delle prescrizioni formalizzate nel decreto di riesame dell’AIA, ma vi ricomprende il riferimento alla perizia chimica redatta dai consulenti tecnici del G.i.p. e della Procura della Repubblica di Taranto, ai sopralluoghi effettuati presso lo stabilimento, nonché agli standards europei previsti nelle cd. “BAT conclusions” di cui alla decisione di esecuzione della Commissione europea 2002/135/UE del 28 febbraio 2012, laddove sono individuate le nuove “best available techniques“.
Non v’è, inoltre, alcuna correlazione tra i costi del piano d’intervento oggetto di programmazione e le singole, pregresse, omissioni penalmente rilevanti in materia ambientale, che dovrebbero costituire il perno della qualificazione del presunto risparmio-profitto ex art. 19 del su citato D. Lgs. n. 231/01: le stesse, infatti, dovrebbero essere differenziate e collocate nello spazio e nel tempo, poi sussunte entro le normative e le autorizzazioni vigenti all’epoca del fatto, ed infine confrontate con la struttura del relativo illecito penale, mentre esse, pur avendo ad oggetto reati di condotta, sono prive di una qualsiasi data di consumazione, o, quanto meno, di inizio della presunta permanenza.
In definitiva, non può confondersi la tassativa nozione di profitto con la quantificazione “prudenziale” – riguardo al capo sub I) – dei costi per l’attuazione di obblighi neppure sussistenti all’epoca della condotta.
3.2.1. Un’ulteriore censura viene sviluppata dai ricorrenti riguardo al fatto che il riferimento ad una programmazione futura effettuata da parte dei custodi del sequestro comporta in quanto tale la violazione dell’A.I.A. vigente e delle norme di legge nel cui ambito il provvedimento autorizzatorio è stato legittimamente emesso (artt. 29-bis ss. del D. Lgs. n. 152/2006), oltre che della stessa disciplina di cui all’art. 1 del D.L. n. 207/212, poiché soggetti diversi dalla P.A. indicano un percorso diverso da quello tracciato nel provvedimento di autorizzazione e ravvisano nelle prescrizioni in tal modo illegittimamente individuate il limite stesso della liceità penale, oltre che una modalità di quantificazione del patrimonio soggetto a sequestro.
3.3. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 2, 5, 9, lett. c), 19, 25-ter, 25-undecies e 53 del D. Lgs. n. 231/01, con riferimento all’epoca delle contestate fattispecie penali di cui ai capi sub A) ed E) dell’imputazione, in quanto la disposizione incriminatrice deve vigere nell’alveo dei reati-presupposto non solo al momento della sanzione-confisca, bensì al momento della consumazione dell’illecito dell’ente, con la conseguente necessità di estromettere dall’estensione temporale dell’illecito amministrativo, e del suo regime sanzionatorio, tutte le condotte storicamente anteriori all’epoca di introduzione dell’illecito penale nel catalogo dei reati-presupposto (ossia, tutte le condotte associative anteriori all’entrata in vigore della novella legislativa n. 94/2009 e tutte le ipotizzate violazioni ambientali anteriori all’entrata in vigore della novella n. 121/2011).
3.4. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 2, 5, 19 e 53 del D. Lgs. n. 231/01, per quel che inerisce sia alla individuazione dei poteri concretamente esercitati dai soggetti apicali, riguardo ai quali è stata dedotta la responsabilità della holding (RIVA F.I.R.E. s.p.a.), sia alla concreta ricorrenza di un interesse o vantaggio dell’ente nella commissione dei reati presupposto.
Nessun ruolo “tipizzante”, anzitutto, può riconoscersi, al fine di una responsabilità ex crimine di “gruppo” dell’ente, ai “soggetti fiduciari” (ossia, Chiolini, Bessone e Legnani) individuati nell’impugnata ordinanza come gestori di fatto all’interno dell’ILVA, sotto la direzione e nell’interesse della famiglia Riva: essi, infatti, non fanno parte del novero dei soggetti chiamati a concorrere nelle ipotesi accusatorie formulate nei capi sub A) ed E), e non possono svolgere, pertanto, un qualsivoglia ruolo nella realizzazione di un ipotetico concorso, necessario od eventuale che sia.
Inoltre, nessuno dei soggetti formalmente imputati del reato – presupposto di tipo associativo (ossia, Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Luigi Capogrosso e Girolamo Archinà) presenta i requisiti individuati dalla giurisprudenza di legittimità per l’imputazione della responsabilità da reato “di gruppo”: gli ultimi due, infatti, non sono soggetti apicali e sono comunque radicati sulla sola controllata ILVA; Nicola Riva non ha assunto alcuna funzione tipica in RIVA FIRE s.p.a., mentre Riva Fabio Arturo è soggetto apicale in quest’ultima, ma non lo è più nell’ILVA da epoca precedente alla vigenza normativa del reato ora contestato all’ente; la posizione del Riva Emilio, infine, cessato dalla sua carica in ILVA s.p.a. il 19 maggio 2010, presenta una coincidenza temporale di funzioni per un periodo di nove mesi, ma non può ritenersi sufficiente per la configurazione del reato associativo, non essendo concepibile un’associazione con sé stesso.
Difetta, pertanto, nel caso di specie, quel requisito formale del doppio ruolo che i soggetti idonei a corresponsabilizzare entrambi gli enti – ossia, il controllante ed il controllato – devono necessariamente rivestire.
Né può ritenersi sufficiente la circostanza che Emilio, ma anche Fabio Riva, abbiano continuato a gestire di fatto lo stabilimento di ILVA s.p.a., per comprovare il fatto che essi abbiano sempre agito per perseguire gli interessi della società controllante – esercitando i poteri inerenti alla carica ivi ricoperta – poiché ciò dimostra solo che gli indagati erano in grado di impegnare, con i loro comportamenti, la responsabilità amministrativa di ILVA s.p.a.
Anche la presenza dell’elemento dell’interesse o vantaggio concreto di RIVA FIRE s.p.a. alla commissione dei reati contestati nei capi sub A) ed E) non è ricavabile, se non attraverso affermazioni congetturali, dalla motivazione dell’impugnata ordinanza: in particolare, l’interesse della holding non può coincidere tout court con il generico riferimento ivi operato all’esercizio dell’attività di impresa, né con lo specifico interesse/vantaggio illecito perseguito dalla sua controllata operativa.
Né, infine, è corretto ricavare la presenza di un interesse della holding dal presupposto di un suo generale, diffuso e preventivo obbligo di intervento nei confronti della controllata:
a) in primo luogo, il fatto che la società fosse in perdita, o meno, è una circostanza che avrebbe potuto, ma non dovuto, attivare la controllante ai fini di una ricapitalizzazione, posto che non sussiste alcun obbligo di ricapitalizzazione infra-societaria a carico della holding;
b) in secondo luogo, non potrebbe escludersi una ricapitalizzazione comunque praticabile con interventi diversi da soluzioni endo-societarie (accesso al credito bancario, emissione obbligazionaria, ecc.).
3.5. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., in relazione agli artt. 178, comma 1, lett. c), 324, comma 7 e 309, comma 8, c.p.p., per avere il Tribunale del riesame concesso alla difesa un termine insufficiente per la consultazione dei documenti depositati dal P.M. all’udienza dell’11 giugno 2013: dinanzi alla mole di tale produzione documentale (trenta faldoni), il termine concesso – dalla chiusura dell’udienza in data 11 giugno 2013, nel pomeriggio, sino alle ore 11.00 del 13 giugno 2013, allorquando l’udienza è stata riaperta per le discussioni – non può dirsi in concreto idoneo a garantire l’effettivo esame del materiale depositato ed il successivo esercizio del diritto di replica.
4. Per quel che attiene alla posizione di RIVA FORNI Elettrici s.p.a. i difensori hanno dedotto gli stessi motivi di doglianza già prospettati nell’interesse della RIVA F.I.R.E. s.p.a., con l’aggiunta di un’ulteriore censura il cui contenuto viene di seguito illustrato.
4.1. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 2, 30 e 53 del D. Lgs. n. 231/01, per l’illegittima sottoposizione a vincolo cautelare per equivalente anche dei beni nella disponibilità della società RIVA FORNI Elettrici s.p.a., in qualità di ente beneficiario dell’operazione di scissione dalla RIVA FIRE s.p.a..
Il coinvolgimento di tale società può ritenersi ammissibile solo alla stregua di quanto stabilito dall’art. 30 del D. Lgs. n. 231/2001, unica norma applicabile nel caso in esame, non essendo l’ente in questione soggetto indagato nell’ambito del presente procedimento.
La sanzione tipica della confisca, anche per equivalente, prevista dall’art. 9, e richiamata dall’art. 19 del su citato D. Lgs., è viceversa esclusa dal campo di applicazione dell’art. 30.
Ne discende che la disapplicazione di siffatta disposizione normativa – avendo il Tribunale del riesame ritenuto la natura meramente fittizia dell’operazione di scissione, evocando la figura della cd. “interposizione reale” per applicare il disposto dell’art. 53 anche ai beni nella reale disponibilità dell’interposto fiduciario, individuato appunto nella RIVA FORNI Elettrici s.p.a. – non può giustificare, poi, l’estensione di una cautela reale alla predetta società ex art. 30, trattandosi di un ente non indagato, che non può in alcun modo subire l’effetto economico di una sanzione gravante su un altro soggetto, quest’ultimo invece sottoposto ad indagine.
Nei confronti dell’ente beneficiario della scissione, dunque, la legge non prevede alcuna forma di aggressione patrimoniale al di fuori della sanzione pecuniaria.
Lo stesso Tribunale del riesame, peraltro, riconosce che nel caso in esame si è dinanzi ad un’operazione non meramente apparente, ma reale ed effettiva di scissione, tanto da utilizzare il termine “interposizione reale”, e non “fittizia”, con la conseguenza che quell’operazione costituisce un negozio valido ad ogni effetto di legge nell’intero ordinamento giuridico, cui non può sostituirsi una mera presunzione legata all’esistenza di un patto fiduciario tra RIVA FIRE s.p.a. e RIVA FORNI Elettrici s.p.a., del quale non v’è alcuna traccia documentale negli atti di causa.
Né, infine, viene quantificato, nell’ordinanza impugnata, l’importo massimo dell’ablazione rispettivamente riferibile all’ente scisso e a quello beneficiario nella denegata ipotesi oggetto dell’obbligazione solidale al pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 30, comma 2, del su citato D. Lgs., avendo il Tribunale omesso ogni riferimento al limite normativo del “valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente”.
5. Con motivi nuovi depositati nella Cancelleria di questa Suprema Corte ai sensi dell’art. 585, comma 4, c.p.p., i difensori di RIVA FORNI Elettrici s.p.a. hanno dedotto:
5.1. la violazione degli artt. 2506-ter, comma 5 e 2504-quater c.c., nonché della Sesta Direttiva 82/891 CEE del 17 dicembre 1982, relativa alle scissioni delle società per azioni, secondo cui, una volta eseguite le iscrizioni dell’atto di scissione nel registro delle imprese, l’invalidità dello stesso non può più essere pronunciata: nel caso in esame, l’atto di scissione parziale di RIVA FIRE a beneficio di RIVA Forni Elettrici, stipulato il 19 dicembre 2012, è stato ritualmente iscritto nel registro delle imprese il 7 gennaio 2013, con la conseguente maturazione del suddetto effetto preclusivo in tempi ben precedenti l’ordinanza di sequestro impugnata; ne discende il divieto, per il giudice nazionale, di rendere vani gli effetti della scissione al di fuori di una delle cause di nullità prescritte e, comunque, una volta iscritto l’atto di scissione nel registro delle imprese;
5.2. la violazione del diritto di proprietà di cui all’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tenuto conto dell’estensione degli effetti del sequestro nei confronti di una società non indagata nel procedimento avviato ai sensi del D. Lgs. n. 231/01;
5.3. la violazione della libertà di circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 63 T.F.U.E., con riferimento al provvedimento di precisazione assunto dal G.i.p. il 17 luglio 2013, sulla base del quale si è proceduto anche al sequestro di beni relativi ad imprese controllate o partecipate da RIVA FORNI Elettrici, con una portata indefinitamente estesa su mercati diversi da quelli in cui operano le società sottoposte a procedimento penale, non giustificata da motivi di interesse generale, e dunque ben oltre quanto è necessario per il perseguimento dello scopo che si prefigge di tutelare.
5.4. Qualora non sia possibile accogliere l’opzione interpretativa basata sulla diretta applicabilità delle invocate norme civilistiche e della Sesta Direttiva citate, supra, nel par. 5.1., si chiede di valutare la possibilità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea a norma dell’art. 267 T.F.U.E..
CONSIDERATO IN DIRITTO
6. I ricorsi sono fondati e vanno accolti per le ragioni di seguito esposte.
7. Occorre esaminare, anzitutto, una serie di questioni prioritarie sul piano logico-giuridico e di comune incidenza sulle posizioni di entrambe le società ricorrenti, rilevando come l’impostazione ricostruttiva seguita dal provvedimento impugnato sia inficiata da un vizio di fondo, laddove si è ritenuto di valorizzare, ai fini della responsabilità amministrativa delle società ricorrenti, una serie di fattispecie di reato [ossia, quelle normativamente descritte negli artt. 434, 437, 439 c.p. e direttamente richiamate nelle imputazioni sub B), C), D) ed I)] del tutto estranee al tassativo catalogo dei reati-presupposto dell’illecito dell’ente collettivo e come tali oggettivamente inidonee, ex artt. 2, 5 e 24 ss. del D. Lgs. n. 231/01, a fondarne la stessa imputazione di responsabilità.
Né la rilevanza di quelle fattispecie può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, nella diversa prospettiva di una loro imputazione quali delitti-scopo del reato associativo contestato sub A), poiché in tal modo la norma incriminatrice di cui all’art. 416 c.p. – essa, sì, inserita nell’elenco dei reati-presupposto ex art. 24-ter del su citato D. Lgs., a seguito della modifica apportata dall’art. 2 della L. 15 luglio 2009, n. 94 – si trasformerebbe, in violazione del principio di tassatività del sistema sanzionatorio contemplato dal D. Lgs. n. 231/01, in una disposizione “aperta”, dal contenuto elastico, potenzialmente idoneo a ricomprendere nel novero dei reati-presupposto qualsiasi fattispecie di reato, con il pericolo di un’ingiustificata dilatazione dell’area di potenziale responsabilità dell’ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i modelli di organizzazione e di gestione previsti dall’art. 6 del citato D. Lgs., scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione.
Non pertinente, all’interno di tale prospettiva, deve ritenersi, poi, il richiamo operato dall’ordinanza impugnata a due precedenti di questa Suprema Corte (Sez. 3, n. 5869 del 27/01/2011, dep. 17/02/2011, Rv. 249537 e Sez. 3, n. 11969 del 24/02/2011, dep. 24/03/2011, Rv. 249760), le cui statuizioni afferiscono a vicende storico-fattuali del tutto diverse da quella qui considerata:
a) secondo la prima di tali pronunzie, avente ad oggetto reati di natura fiscale, il profitto del reato di associazione per delinquere, sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente (ex art. 11 della L. 16 marzo 2006, n. 146), è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata dall’esistenza di una stabile struttura organizzata e dal comune progetto delinquenziale;
b) il secondo degli arresti giurisprudenziali sopra citati, a sua volta, ha stabilito che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente è applicabile, per i reati transnazionali, anche al profitto dei reati di frode fiscale rientranti nel programma associativo di un’organizzazione criminale transnazionale (precisando, in motivazione, che il reato-fine di frode fiscale costituisce un reato transnazionale in base all’art. 3, comma primo, lett. c), della citata legge n. 146 del 2006).
Anche a voler prescindere dalla omessa valutazione dei profili inerenti al, pur doveroso, accertamento dell’esistenza di una progressione causale determinata dal duplice legame tra il reato associativo e la commissione dei reati-fine, e tra questi ultimi ed il conseguimento di un evento economico definibile quale profitto – aspetti, questi, sulle cui implicazioni l’ordinanza impugnata non si è soffermata – è evidente che i su menzionati precedenti giurisprudenziali non avevano ad oggetto il controllo dei presupposti e delle condizioni della responsabilità sanzionatoria degli enti, ma afferivano all’individuazione dei profitti conseguiti nell’ambito di associazioni operanti a livello transnazionale, ed i cui reati-fine erano di natura fiscale, riproponendosi, pertanto, i medesimi argomenti posti a sostegno delle assorbenti considerazioni che di qui a breve andranno ad esporsi (v., infra, il par. 12.1.) in merito alla sussistenza di un’oggettiva, immanente, correlazione causale fra l’accertamento dell’importo del debito tributario e la determinazione della quota parte dell’illecito risparmio fiscale.
8. Parimenti non individuata, inoltre, risulta la presenza di un legame eziologico diretto tra le diverse violazioni in materia ambientale – ipotizzate nel capo d’imputazione sub E) senza indicare una specifica collocazione temporale delle date d’inizio della rilevata permanenza – e le componenti del relativo profitto, che il provvedimento impugnato ha formalmente identificato nella complessiva entità dei pregressi risparmi di spesa, ma che ha sostanzialmente ricondotto alla diversa configurazione di un ipotetico danno, attraverso il riferimento ad una prudenziale quantificazione dei costi necessari per la successiva realizzazione di investimenti legati ad opere, non ancora effettuate, di risanamento ambientale dello stabilimento siderurgico.
In relazione a tale specifico profilo, peraltro, ed anticipando quanto si dirà più diffusamente nel prosieguo (v., infra, i parr. 11 ss.), deve comunque evidenziarsi, fin da ora, la centralità del rilievo che la confisca del risparmio-profitto, in ogni caso, sarebbe possibile solo nel momento in cui l’ente realizzasse in concreto un ricavo in misura superiore a quello altrimenti conseguibile tenendo conto dell’entità dei costi ambientali specificamente individuati e determinati all’interno della relativa cornice storico-fattuale.
9. V’è ancora da osservare, sulla base di un quadro di principii già chiaramente delineato in questa Sede (Sez. 6, n. 14564 del 18/01/2011, dep. 12/04/2011, Rv. 249378), che l’istituto della confisca disciplinato nell’art. 19 del D. Lgs. n. 231/01 trova un suo fondamentale presupposto nella sentenza di condanna per uno dei reati ivi tassativamente previsti, dalla cui commissione sia derivata l’acquisizione di un profitto illecito per la società, sicché, per quanto riguarda il rispetto dei principii di legalità e di irretroattività ribaditi dall’art. 2 dello stesso decreto legislativo, occorre fare comunque riferimento alla data di realizzazione delle condotte costituenti reato e non al momento di percezione del profitto stesso.
Il principio di legalità stabilito dall’art. 2 cit. subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione legislativa espressa, sia in ordine all’illecito, sia in relazione al tipo di sanzione, precisando che deve essere entrata in vigore prima della commissione del fatto. Ne discende che è la commissione del fatto a dover essere presa in considerazione al fine di accertare l’applicabilità della sanzione, e per “fatto” deve appunto intendersi ciò che costituisce il reato.
In altri termini, è il momento consumativo del reato che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9 del D. Lgs. n. 231/2001, nel senso che, in base alla connessa previsione di cui all’art. 2, l’intera disciplina sanzionatoria del decreto non trova applicazione in relazione a “fatti” commessi prima della sua entrata in vigore.
Il momento di acquisizione del profitto, invece, è del tutto irrilevante ai fini ora considerati, in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca, che incontra il suo necessario presupposto nell’esistenza, appunto, di un reato che risulti commesso nella vigenza del su indicato D. Lgs..
Anche con riferimento all’ipotesi del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di cui all’art. 19 del D. Lgs. cit., è sempre e solo l’accertata consumazione del reato, dunque, a determinare la possibilità di acquisizione coattiva del profitto illecitamente conseguito.
Alla stregua di tali considerazioni risulta evidente, in ragione della sua natura tipicamente sanzionatoria, che l’applicazione del vincolo cautelare reale e della successiva misura ablativa non può essere fatta retroagire a condotte realizzate anteriormente alla rilevata esistenza dei presupposti e delle condizioni per la stessa configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, assumendo rilievo, al riguardo, solo le condotte temporalmente coperte dalla vigenza, nel catalogo dei reati-presupposto, della fattispecie associativa e degli illeciti in materia ambientale.
Avrebbero dovuto coerentemente estromettersi, dunque, al fine della corretta determinazione del profitto, tutte le condotte associative anteriori all’entrata in vigore della novella legislativa n. 94 del 15 luglio 2009 (ex art. 2, comma 29) e tutte le violazioni in materia ambientale anteriori all’entrata in vigore dell’art. 2, comma 2, del D. Lgs. 7 luglio 2011, n. 121 – che ha inserito nel novero delle fattispecie-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti collettivi una serie di reati espressamente indicati nel nuovo art. 25-undecies del D. Lgs. n. 231/2001 – tenendo conto non solo delle esigenze di specifica delimitazione temporale derivante dalla necessaria individuazione delle rispettive date d’inizio della contestata permanenza dei reati-presupposto, ma anche dell’impossibilità di ravvisare una qualsiasi forma di estensione della misura ablativa al risparmio profitto eventualmente conseguito per effetto di condotte risalenti ad epoca temporalmente non coperta dal necessario rapporto di presupposizione.
10. Passando, ora, all’esame degli ulteriori, fondamentali, profili di doglianza, occorre preliminarmente rilevare che il provvedimento impugnato ha identificato il profitto, derivato all’ente collettivo dalle ipotizzate contestazioni relative ai reati ambientali, ovvero ai delitti di disastro innominato doloso, di omesse cautele contro gli infortuni sul lavoro e di avvelenamento di sostanze destinate all’alimentazione (la cui “sommatoria” ha ritenuto costituire, peraltro, il profitto del reato associativo), nel “risparmio dei costi – non sopportati – di adeguamento degli impianti”, ponendone in relazione gli elementi costitutivi non all’evento di danno o di pericolo dei reati contro l’incolumità pubblica, bensì alla condotta, attiva od omissiva, posta in essere dagli indagati attraverso l’esercizio degli impianti industriali con le illegali modalità descritte nella provvisoria formulazione degli addebiti loro mossi nei rispettivi capi d’imputazione.
Seguendo tale prospettiva, dunque, il Tribunale del riesame ha integralmente identificato il profitto illecito nel risparmio dei costi non sostenuti per effetto della consumazione dei reati di cui ai capi d’imputazione sub A), B), C), D) ed E), sulla base del presupposto che “dagli omessi interventi per limitare ed evitare gli effetti inquinanti ed i danni ambientali, scaturiti dalla gestione dello stabilimento, l’impresa ha ricavato un sicuro vantaggio patrimoniale, pari ai costi che avrebbe dovuto sopportare per adeguare gli impianti alle migliori tecnologie disponibili o, prima ancora, per far cessare la procrastinata violazione delle norme poste a salvaguardia dell’ambiente”.
11. E’ imprescindibile, nell’operazione di verifica del profitto assoggettabile a sequestro in funzione della confisca prevista dall’art. 19 del D. Lgs. n. 231/01, il riferimento al principio di diritto stabilito da questa Suprema Corte in ordine alla corretta delimitazione della nozione di profitto aggredibile con una misura ablativa nel sistema della responsabilità sanzionatoria degli enti, a norma degli artt. 19 e 53 del D. Lgs. n. 231/01.
Tale nozione, invero, si sostanzia nel “complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti”, quale sua conseguenza economica immediata, richiedendo pertanto una diretta derivazione eziologica del profitto dalla condotta penalmente rilevante commessa nell’interesse o a vantaggio dell’ente collettivo (Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, dep. 02/07/2008, Fisia Italimpianti s.p.a. e altri).
Occorre, dunque, “una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito”.
Una linea interpretativa, questa, successivamente ribadita anche da Sez. Un., n. 38691 del 25/06/2009, dep. 06/10/2009, Caruso, sia pure con riferimento alla diversa questione problematica inerente all’esclusione del sequestro preventivo funzionale alla confisca “per equivalente” del profitto del reato in tema di peculato.
Al criterio selettivo basato sul parametro della pertinenzialità del profitto al reato si è ispirata, del resto, anche un’altra pronuncia delle Sezioni Unite (n. 10280, del 25/10/2007, Miragliotta), che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della concussione, ha privilegiato una nozione di profitto in senso “estensivo”, ricomprendendovi anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma premurandosi, al contempo, di sottolineare che tale reimpiego è comunque causalmente ricollegabile al reato ed al suo profitto “immediato”, e così ribadendo la necessità di un rapporto diretto con la condotta delittuosa.
Con la su citata decisione n. 26654 del 27/03/2008, inoltre, le Sezioni Unite hanno avuto occasione di chiarire che la confisca del profitto del reato prevista dagli artt. 9 e 19 del D. Lgs. n. 231 del 2001 si configura come sanzione principale, obbligatoria ed autonoma rispetto alle altre previste a carico dell’ente, e si differenzia da quella configurata dall’art. 6, comma quinto, del medesimo decreto, applicabile solo nel caso in cui difetti la responsabilità della persona giuridica, la quale costituisce invece uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato presupposto, i cui effetti sono comunque andati a vantaggio dell’ente.
12. Sulla base di quanto previsto dall’art. 19, comma 2, del D. Lgs. n. 231/01, la confisca per equivalente, essendo finalizzata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, anche dei vantaggi economici immateriali, fra i quali ben possono farsi rientrare, a titolo esemplificativo, quelli prodotti da economie di costi ovvero da mancati esborsi, ossia da comportamenti che determinano non un miglioramento della situazione patrimoniale dell’ente collettivo ritenuto responsabile di un illecito dipendente da reato, ma un suo mancato decremento.
Al riguardo, tuttavia, è necessario considerare le specifiche implicazioni della linea interpretativa tracciata con la su menzionata pronuncia n. 26654/2008 delle Sezioni Unite, laddove si è osservato che la nozione di risparmio di spesa presuppone “un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo”, concretamente determinato dalla contestata condotta delittuosa (che nel caso ivi esaminato, peraltro, riguardava la diversa ipotesi di truffa).
Ne discende che quella nozione non può essere intesa in termini assoluti, quale profitto cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile, ossia entro una prospettiva limitata all’apprezzamento di una diminuzione o semplicemente del mancato aumento del passivo, ma deve necessariamente intendersi in relazione ad un “ricavo introitato” dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia nel senso di una non diminuzione dell’attivo.
Occorre, pertanto, un profitto materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto senza omettere l’erogazione delle spese dovute.
Né è possibile, del resto, colpire più volte, attraverso un’ingiustificata duplicazione di oneri a carico dell’ente, le medesime somme di denaro, una volta considerate in termini positivi, ossia come accrescimento patrimoniale, ed un’altra volta in termini negativi, come risparmio di spese, potendo essere sottoposta ad espropriazione solo l’eccedenza tra l’incremento patrimoniale effettivamente maturato e quello che sarebbe stato conseguito senza l’indebito risparmio di spese.
Vale osservare, al riguardo, che il legislatore non ha inteso configurare lo strumento ablativo avente ad oggetto “somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato” quale istituto sanzionatorio autonomo, sganciato da ogni collegamento con la confisca diretta di cui al primo comma della disposizione su richiamata, ossia dalla preventiva possibilità di individuare un vantaggio materialmente affluito nel patrimonio dell’ente collettivo quale profitto dell’attività criminosa allo stesso riferibile, ma ne ha sottolineato l’incidenza nei confronti di utilità di valore equipollente al compendio economico originato in misura tangibile dalla commissione del reato, comportando, in tal modo, una effettiva, e non ipotetica, modificazione del patrimonio del soggetto attivo.
L’istituto della confisca per equivalente, infatti, è azionabile solo nelle ipotesi in cui sia impossibile procedere al sequestro o alla confisca cd. di proprietà, come la stessa Relazione illustrativa del D. Lgs. n. 231/01 esplicitamente conferma, allorquando pone in evidenza che siffatto strumento ablativo mira ad evitare che “l’ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”.
Ne discende, ancora, che ai fini della configurabilità della nozione di profitto quale risparmio di spesa conseguito dall’ente si rende necessario individuare la presenza di un risultato economico positivo, determinato in concreto dalla realizzazione delle contestate condotte di reato: evenienza, questa, non affiorata, né in alcun modo riscontrabile nel caso in esame, dove l’ipotizzato danno ambientale cagionato da quelle condotte non può certo ritenersi equivalente ad un incremento patrimoniale ottenuto dalle società ricorrenti quale diretta ed immediata conseguenza dei reati presupposto.
E’ il rispetto dello stesso principio di tassatività delle sanzioni (ex artt. 2 e 9 del D. Lgs. n. 231/01) ad escludere, in assenza di un introito effettivo, la possibilità di assoggettare allo strumento della confisca per equivalente il valore di costi illegittimamente non sostenuti dall’ente collettivo per effetto della mancata adozione di misure preventive espressamente prescritte dalla legge negli specifici settori di riferimento.
12.1. Si renderebbe dunque necessaria, in ipotesi, una esplicita presa di posizione del legislatore, volta ad ammettere, sulla scorta di precisi ed oggettivi criteri di quantificazione, l’ablazione di meri risparmi di spesa, a maggior ragione ove si consideri, ad es., che nel campo del diritto penale tributario l’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244, ha stabilito che nei casi di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10- quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322-ter c.p., rendendo possibile, in tal modo, l’applicazione della confisca per equivalente anche nei confronti degli autori di taluni reati tributari.
La ratio e le finalità di tale intervento normativo, peraltro, emergono con chiarezza, ove si ponga mente al rilievo, di immediata ed agevole comprensione, che in quelle fattispecie di reato non si tratta tanto di un risparmio, quanto di un inadempimento ad un’obbligazione già esistente prima delle condotte, liquida, esigibile, quantificata in termini nummari. Il profitto si realizza, dunque, proprio con il mancato pagamento del tributo e, ciò nonostante, prima della novella legislativa del 2007 esso non poteva essere assoggettato alla confisca ex art. 240 c.p. in quanto, benché il valore sottratto coincidesse con elementi già presenti e rinvenibili nella sfera patrimoniale del reo, non rientrava stricto sensu nel concetto di “provenienza da reato”.
Pertanto, sulla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale elaborato da questa Corte in tema di reati tributari, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, disposto in virtù della su citata legge finanziaria n. 244/2007 per i reati tributari di cui al D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è riferibile all’ammontare dell’imposta evasa, in quanto quest’ultima costituisce un risparmio economico correlato alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo, conseguendo un indubbio vantaggio patrimoniale “direttamente” derivante dalla condotta illecita e, come tale, ormai riconducibile alla nozione di “profitto” del reato (Sez. 3, n. 1199/2012, Rv. 251893, Galiffo; Sez. 3, n. 35807/2010, Rv. 248618, Bellonzi; v., inoltre, Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 17/01/2012, Rv. 253480).
Un’impostazione ricostruttiva, questa, che di recente è stata convalidata dalle stesse Sezioni Unite (Sez. Un., n. 18374 del 31/01/2013, dep. 23/04/2013, Rv. 255036), chiamate a pronunciarsi sulla confisca del profitto nel reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 del D. Lgs n. 74 del 2000.
Nei reati tributari, infatti, il vantaggio patrimoniale, specularmente correlato all’evasione d’imposta, deriva direttamente dalla condotta dell’agente, ed il giudice penale, nel ritenere la sussistenza del reato, contestualmente e inevitabilmente accerta la diretta derivazione del profitto del reato dalla condotta dell’autore.
Soltanto in forza di tale accertamento, dunque, può ritenersi legittima la confisca per equivalente di beni di valore corrispondente all’imposta evasa e si rende possibile, a fini cautelari, l’adozione del provvedimento di sequestro preventivo (Sez. 6, n. 11029 del 14/11/2012, dep. 08/03/2013, Rv. 254722, che in applicazione di tale principio ha escluso che il risparmio d’imposta derivante da una sentenza del giudice tributario oggetto di accordo corruttivo costituisca di per sé profitto del reato, indipendentemente dall’accertamento della fondatezza della pretesa erariale).
13. Anche in relazione ad altre vicende storico-fattuali, per certi versi assimilabili a quella qui esaminata, la Suprema Corte ha fatto coerente applicazione del quadro di principii delineato dalle Sezioni Unite con la su menzionata pronuncia n. 26654 del 27/03/2008.
Con una recente decisione, infatti, questa Corte (Sez. 6, n. 35748 del 17/06/2010, dep. 05/10/2010, P.M. e Impregilo s.p.a.) si è soffermata ad analizzare un’ipotesi di sequestro preventivo funzionale alla confisca prevista dall’art. 19 del D. Lgs. n. 231/01, in relazione al reato presupposto di truffa ai danni dello Stato, in cui i Giudici di merito avevano ritenuto che il profitto del reato era costituito dalle spese sostenute dal Commissariato di Governo, in luogo di un gruppo di imprese appaltatrici, contrattualmente inadempienti riguardo alle obbligazioni derivanti dall’affidamento delle attività di smaltimento dei rifiuti solidi urbani in periodo di emergenza.
Si è osservato, in questo caso, che il Tribunale del riesame aveva operato una indebita equiparazione tra la pretesa risarcitoria ed il profitto di reato, inteso nel senso indicato dalle Sezioni unite, poiché la somma oggetto del provvedimento cautelare altro non era se non la spesa autonomamente sostenuta dalla pubblica amministrazione per far fronte alle gravi difficoltà emerse durante l’esecuzione del contratto, e la stessa rappresentava, dunque, l’eventuale danno che la condotta delle società ricorrenti aveva cagionato all’amministrazione nel campo dello smaltimento dei rifiuti, rendendo necessario l’intervento straordinario del Commissariato di Governo, senza che potesse stabilirsi la sua corrispondenza al profitto del reato, in quanto il pregiudizio economico cagionato alla controparte contrattuale non equivaleva ad un incremento patrimoniale conseguito dalle società ricorrenti quale diretta ed immediata conseguenza del reato presupposto.
Nella vicenda ora richiamata, pertanto, la Corte di legittimità ha concluso nel senso che la somma oggetto del vincolo cautelare reale poteva costituire, sulla base di prove adeguate, l’oggetto di una pretesa risarcitoria della parte pubblica rispetto alla condotta illecita posta in essere dalle società inadempienti, ma non poteva ritenersi profitto del reato, in quanto il danno cagionato alla pubblica amministrazione non si era tradotto anche in un vantaggio patrimoniale direttamente scaturente dal reato.
Nella medesima prospettiva ermeneutica, peraltro, si è escluso che il valore della somma in questione potesse rientrare nella nozione di profitto inteso come “risparmio di spesa”, poiché tale concetto, così come definito dalle Sezioni Unite, presuppone un ricavo comunque introitato, che non venga decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta, la cui presenza non è stata riscontrata nel caso ivi esaminato, per non esservi stato alcun introito da parte delle società indagate (Sez. 6, n. 35748 del 17/06/2010, dep. 05/10/2010, cit.).
14. Sulla base delle su esposte considerazioni, in definitiva, è necessario, perché possa individuarsi un profitto assoggettabile a sequestro, e poi a confisca, ai sensi delle citate disposizioni di cui agli artt. 19 e 53, che si verifichi, quale diretta conseguenza della commissione del reato, uno spostamento reale di risorse economiche, ossia una visibile modificazione positiva del patrimonio dell’ente, evitando improprie assimilazioni tra la nozione di profitto del reato, inteso quale reale accrescimento patrimoniale, e la causazione di meri danni risarcibili relativi a risparmi di spesa indebitamente ottenuti dall’ente per effetto della mancata esecuzione di opere di risanamento ambientale.
Dall’ordinanza impugnata, peraltro, non emergono elementi idonei a ritenere che le conseguenze economiche generate dagli eventi di danno o di pericolo tipizzati nella struttura delle contestate fattispecie di reato possano essere assimilate a quelle proprie di un profitto correttamente inteso come risparmio dei costi d’impresa, risultando, piuttosto, già dal tenore letterale delle imputazioni, l’ipotesi inversa, ossia che i diversi effetti riconducibili al prospettato fenomeno di inquinamento (dell’aria, dell’acqua, del suolo, ecc.) siano stati determinati da un’articolata serie di condotte le cui specifiche caratteristiche e note modali paiono disvelarsi anche attraverso plurime omissioni di investimenti nella predisposizione delle misure necessarie all’attuazione delle diverse opere di risanamento ambientale.
Da tali riflessioni, inoltre, discende, quale logico corollario, che, pur nelle ipotesi in cui l’attività illecita imputabile all’ente abbia arrecato un danno ingiusto a terzi, non è possibile dedurne automaticamente il conseguimento di un profitto illecito come tale sottoponibile a vincolo reale, ma deve ritenersi essenziale, di contro, una verifica puntualmente orientata a stabilire se quel danno si sia concretato anche in un vantaggio patrimoniale oggettivamente riconoscibile perché direttamente scaturente dalla commissione del reato-presupposto.
Nel caso in esame, come si è osservato, l’individuazione del profitto è stata erroneamente operata attraverso l’integrale equiparazione delle sue componenti con la prospettata quantificazione delle somme inerenti al risparmio dei costi, non sostenuti, del necessario – proprio al fine di evitare danni – adeguamento degli impianti dello stabilimento siderurgico, trascurando la verifica in merito alla presenza di una diretta correlazione causale con i reati-presupposto e senza accertare, in conformità alla regula iuris enunciata dalle Sezioni Unite, l’eventuale determinazione di un risultato economico positivo comunque ricavato dalle società indagate per effetto della realizzazione delle contestate ipotesi di reato.
15. Esclusi, dunque, i presupposti della confiscabilità del profitto ed accolti, correlativamente, i primi tre motivi di ricorso, devono ritenersi logicamente assorbiti i residui profili di doglianza prospettati da entrambe le società ricorrenti (v., supra, i parr. 3.4, 3.5 e 4.1.).
Devono invece ritenersi inammissibili i motivi nuovi dedotti nell’interesse della RIVA FORNI Elettrici s.p.a. (v, supra, i parr. 5 ss.), poiché essi prospettano violazioni di legge non dedotte dinanzi al Tribunale del riesame, né in questa Sede all’atto della proposizione del ricorso.
Invero, alla stregua di un consolidato orientamento interpretativo di questa Suprema Corte (ex multis, v. Sez. 1, n. 40932 del 26/05/2011, dep. 10/11/2011, Rv. 251482; Sez. 5, n. 1070 del 14/12/1999, dep. 01/02/2000, Rv. 215669), la presentazione di motivi nuovi è consentita solo entro i limiti in cui essi investano capi o punti della decisione già enunciati nell’atto originario di gravame, poiché la “novità” è riferita ai “motivi”, e quindi alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame su singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati con il ricorso.
Ne discende che, in tema di ricorso per cassazione, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare un mero sviluppo od una migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti; ne consegue, ancora, che possono essere ritenuti ammissibili soltanto quei motivi aggiunti con i quali, a fondamento del “petitum” dei motivi principali, si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto “petitum“, introducendo censure non tempestivamente formalizzate nei termini (Sez. Un., n. 4683 del 25/02/1998, dep. 20/04/1998, Rv. 210259; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 11/01/2013, Rv. 254301; Sez. 1, n. 46950 del 02/11/2004, dep. 02/12/2004, Rv. 230281).
16. In conclusione, in accoglimento dei ricorsi proposti da RIVA F.I.R.E. s.p.a. e da RIVA FORNI Elettrici s.p.a., deve disporsi l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata, con il conseguente travolgimento del precedente decreto di sequestro adottato dal G.i.p. presso il Tribunale di Taranto in data 22 maggio 2013, e del relativo provvedimento di integrazione emesso dallo stesso G.i.p. in data 24 maggio 2013, con il dissequestro e la restituzione delle cose sequestrate agli aventi diritto.
La Cancelleria curerà l’espletamento degli incombenti previsti dall’art. 626 c.p.p..
P. Q. M.
annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché i decreti di sequestro del 22 maggio e del 24 maggio 2013 del G.i.p. del Tribunale di Taranto e dispone la restituzione di quanto in sequestro agli aventi diritto.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 c.p.p..
Così deciso in Roma, lì, 20 dicembre 2013